OLTRE IL PONTE
Esiste il ponte. Non quello di cemento, ecomostro delle derive demagogiche cui siamo abituati dalle politiche populiste degli ultimi decenni, che sbandierano progetti di insania proiezione egotistica come fossero soluzioni mirabolanti a ormai radicate questioni meridionali, nella speranza di coartare un consenso ormai stanco e avvezzo a smaliziate liasons da corridoio.
Ma un ponte radicato nelle coscienze, profondamente strutturato nella memoria, con suoi ben precisi e identificabili pilastri antropologici. È quello che affonda le sue strutture nel mare della storia, che ha visto per secoli Sicilia e Calabria - e l’area mediterranea nel suo complesso - percorrere le medesime strade attraversate dalle stesse genti, che ritrova nel comune passato una propria consistenza per il presente.
Questo comune destino travalica inesistenti legami geografici per far emergere le tracce di una continuità di mappe sentimentali e culturali, e per questo identitarie. Vi si possono aggiungere altri intrecci che si delineano con estremo nitore, dalle condivise dominazioni alle identiche condizioni di ospitalità e meticciato etnico, che fanno di questi luoghi per antonomasia i luoghi delle dinamiche conflittuali che attraversano la contemporaneità, nella dialettica ormai conclamata tra globale e locale. Il nomadismo diviene la forma dell’attraversamento sperimentale dei linguaggi, contaminando vissuti intimistici e denuncia sociale. Unica evidente difformità è proprio in quello status di insularità cui tanta letteratura e saggistica ci ha abituato. Ma l’insularità può in definitiva leggersi come condizione ultima dell’individualità, che ci appartiene. Anche se No man is an Island, per richiamare John Donne.
I regionalismi pertanto vanno letti, a nostro avviso, unicamente come dato di partenza, background irrinunciabile, non mai come esito di scelte o di percorsi.
Il genius loci appare oggi una risorsa imperdibile, quasi un’oasi da tutelare, nella logica di un sistema che azzera e livella al fine di perseguire unicamente le logiche crudeli di un mercato onnivoro quanto alienante.
Questa mostra, che si affianca alle altre iniziative promosse dalla Fondazione Orestiadi, con l’apporto del Ministero per i Beni Culturali e per il Turismo, condiviso con la Soprintendenza BSAE della Calabria e con la Galleria Nazionale di Cosenza, intende proporre un excursus all’interno del panorama – ben più vasto ed articolato di quanto si possa immaginare, ad un primo screening – delle sperimentazioni visive oggi presenti nel territorio calabrese, o che dalle radici di questo traggono spunti e ragion d’essere.
Il confronto con le straordinarie opere di Gibellina non può che generare un proficuo scambio di esperienze, nella logica di poter ‘scoprire’ una realtà artistica che nulla ha da invidiare a confronto con i più noti scenari internazionali. Poetiche e linguaggi si intrecciano a documentare una continuità dell’arte mai intervallata da cesure, da irreversibili tagli, sia pure nella consapevolezza che mai come oggi l’opera è in sé crocevia di inquietudini e interrogativi, luogo di senso ma anche di ansie, in un serrato dialogo con la storia.
Le opere in mostra – che spaziano dalla pittura alle installazioni, dai video alla scultura – hanno come evidenza accomunante la ricerca di linguaggi che, pur non rinunciando ad una tradizione assunta e metabolizzata ormai come dato acquisito, si proiettano in zone impervie e in spericolati sentieri di non consueti percorsi visivi, nella consapevolezza che da un territorio di conflitto (meglio sarebbe dire di ‘conflitti’) non può che scaturire una ricchezza di opzioni e di scelte di mezzo e di contenuto. Dunque non si tratta di aprire un osservatorio su quanto accade in un territorio prossimo come la Calabria - con una presunzione di onnicomprensività realmente estranea a questo progetto ed in questo momento - quanto di mostrare attraverso esempi significativi la continuità e la persistenza di modelli linguistici e culturali, di ‘trame’ appunto, che non si delineano unicamente come paradigmi grafici o segnici, ma come modelli di vissuto e di interpretazione del reale.
Così i lavori di Dammone Sessa, accademici per certi versi, denotano la padronanza di una tradizione che si fa esperimento e dinamica interattiva della visione; mentre le visioni subacquee di Nicola Rotiroti, divengono metafora di una condizione amniotica che appartiene a tutti, senza rinunciare ad un lirismo e ad una perfezione del gesto come scelta di appartenenza figurativa irrinunciabile. La Bambina guerriera di Claudia Zicari, si incontra inevitabilmente con la Montagna di sale di Paladino, generando un corto-circuito che dal versante antropologico sfocia nella più scottante problematica dell’io violato ma non disarmato. Le inquiete figure di Shawnette Poe, artista di origine polacca trapiantata a Cosenza, si sciolgono nell’onirico e galleggiano in un vissuto che, pur di matrice neo pop, o neo surrealista, non è mai compiacimento verso l’osservatore, ma quesito sull’essenza dell’essere oggi, qui ed ora. Raffinato il resoconto concettuale di Gianfranco Grosso, che deve a Rotella l’idea dell’accumulo materico, come strati di coscienza da sollevare o da ricomporre, e si muove verso una ricerca che estrae i dati di una realtà subita per divenire invece forma di un disagio mai acquietato. Sullo stesso versante il video e l’installazione del giovane duo di Movimento Milc (che deve il nome alle iniziali dei componenti), che si muovono verso l’osservatore in un coinvolgimento visivo che non si traduce mai in un rasserenante gioco sperimentale, ma provocatoriamente indaga lo sguardo dell’astante e le sue abitudini percettive, e dunque le sue consuetudini sociali. Entrambi gli artisti si muovono tra dominio dei linguaggi e distillazione concettuale. Anche Cordì crea presenze fantasmatiche e indefinibili che, pur non rinunciando alle ricerche materiche affini a quelle di Klein, Manzoni o Burri (come non pensare al Grande Cretto!), sfociano in un espressionismo che non è mai fine a se stesso, alla pura sperimentazione materica. Infine i lavori della Pellicanò e di Ninni Donato, che attingono ad un immaginario quasi post-bellico, aprendo scenari inquietanti e onirici in cui l’utilizzo dell’immagine diviene mezzo per veicolare questioni e problematiche che travalicano gli ambiti regionalistici, per porre questioni scottanti, che creano paradossi visivi quasi magrittiani, nell’evidente contrasto tra raffinatezza dell’apparenza e ricerca estetizzante, spinto fino alla colta citazione del frammento, e orrore della rappresentazione.
Emerge con prepotenza in questi artisti insieme al dominio dei mezzi espressivi e dei codici specifici la necessità che la ricerca visiva non sia fine a se stessa ma che abbia echi e risvolti comunicazionali di senso compiuto. Senza però perdere di vista uno slittamento poetico, pur nella certezza della perdita di riferimenti assoluti. L’arte, che sia realistica o astratta, non rinuncia a documentare il presente e a costituire l’ambito privilegiato in cui, filtrando il passato, si possa poi progettare, o quanto meno delineare, un orizzonte futuro.
Questo dunque il ‘ponte’ reale, tracciato tra il sé e l’altro da sé.
Fabio De Chirico